
De-Influencing: aspetti legali e tutele
Indipendentemente dal tipo di prodotto o servizio è probabile che anche tu abbia acquistato un prodotto utile o esteticamente accattivante in base alla raccomandazione di qualcuno che hai visto sui social media.
È così che l’influencer marketing funziona.
Ormai da tempo le aziende hanno capito il potenziale di un post sponsorizzato da Influencer o micro Influencer.
E se la collaborazione avviene in modo esplicito e regolamentato, il beneficio per l’azienda, per il marchio e per l’Influencer è notevole.
Cosa significa De-Influencing
Deinfluencing è un hashtag da 151,8 milioni di visualizzazioni su TikTok. L’hashtag viene utilizzato per raccontare come alcuni prodotti sponsorizzati da Influencer siano troppo costosi o di scarsa qualità.
L’invito alla community è di non acquistare o sostituire quei prodotti con altri, spesso di costo inferiore.
“De-influencer” è un termine usato per descrivere l’atto deliberato di ridurre l’influenza di una particolare persona su un social media.
Questo termine è spesso usato in relazione a individui che hanno costruito la loro reputazione e il loro seguito sui social media ma il cui comportamento o le cui azioni hanno fatto perdere interesse o fiducia al loro pubblico. E’ una situazione che può verificarsi anche a seguito di un cambiamento nell’algoritmo o nelle politiche di una piattaforma, rendendo più difficile per determinati account ottenere trazione o visibilità.
Il de-influencing viene definito così:
Il de-influencing vuole mettere un freno a questo ciclo senza respiro di trend, micro trend e prodotti virali. Si tratta di un movimento eterogeneo nato spontaneamente e comprende diverse tipologie di contenuti, dalle liste di prodotti da non comprare alla ripetizione in video di motti e inviti a non farsi spingere all’acquisto. Lo scopo è di far riflettere chi guarda sul fenomeno dei trend. (Priscilla Lucifora su NSS Magazine)
Una realtà da non sottovalutare e che inizia a trasformare (ma non intaccare) il ruolo degli influencer di qualsiasi settore.
Un’ondata crescente di creatori su TikTok sta esortando le persone a “resistere” al richiamo dell’influencer marketing e a rivalutare i propri acquisti come parte di una tendenza sempre più diffusa.
Questo ha coinciso con un dibattito sull’autenticità dell’influencer marketing, che vuole spingere le persone a rivalutare se i prodotti che hanno acquistato, grazie alle raccomandazioni del loro Influencer preferito, siano validi come promesso.
Il de-influencing, nel suo valore più intrinseco, vuole essere un tentativo di liberarsi dal ciclo di consumo eccessivo in favore di acquisti più consapevoli.

Foto di Vincent Timothy su Unsplash
Le conseguenze del de-influencing
“Sono qui per de-influenzarti” è la frase più comune che appare nei video su TikTok. E che precede il racconto di un prodotto acquistato a causa delle recensioni entusiastiche di un Influencer, ma che è di gran lunga inferiore alle sue aspettative.
L’hashtag de-influencing produce un mix di video che, da una parte, criticano il consumo eccessivo e dall’altra dissipano l’hype di un prodotto e indirizzano gli spettatori verso un’alternativa migliore. Ma il “non comprare questo, compra quello” non è tanto de-influencing quanto re-influencing.
I de-influencer sembrano in gran parte guidati dagli stessi fattori che guidano gli Influencer: la fama virale e il denaro che ne deriva. Sono per molti versi un altro prodotto dell’industria degli Influencer, che ispira più persone a dedicarsi alla creazione di contenuti finalizzata a un potenziale flusso di reddito.
De-influencing: comunicazione pubblicitaria comparativa e denigratoria
La comunicazione pubblicitaria diventa denigratoria quando omette informazioni utili e veritiere e utilizza un linguaggio che travalica le regole della “continenza”.
Il Tribunale di Milano ha stabilito con due diverse decisioni la sussistenza dell’illecito concorrenziale e la violazione dell’articolo 2598 n. 2 del Codice Civile. Diffondere informazioni e apprezzamenti sui prodotti e sull’attività di un concorrente, idonei a determinarne il discredito, è un atto di concorrenza sleale.
In passato, la magistratura ordinaria ha avuto un approccio ondivago nei confronti della pubblicità comparativa.
Alcune pronunce hanno ritenuto che ogni comparazione, anche se esplicita, determinasse automaticamente l’illecito concorrenziale. D’altra parte, la pubblicità comparativa è stata considerata lecita solo se veritiera e non subdola o tendenziosa e tale da non sfociare nella denigrazione.
In sintesi, la pubblicità comparativa è lecita solo se veritiera e non subdola o tendenziosa e se non sfocia nella denigrazione del concorrente. Ai fini della liceità della comparazione, rilevano anche le modalità di espressione del messaggio. Anche quando l’informazione veicolata sia veritiera deve sempre valere il principio di continenza espressiva.
Che si concretizza nel:
Linguaggio
Ai fini della liceità della comparazione rilevano anche le modalità linguistiche di espressione del messaggio. Anche se l’affermazione veicolata fosse corrispondente al vero, vale infatti il principio della continenza espressiva che impone l’utilizzo di un linguaggio moderato e non eccessivo.
Contenuti veritieri
Il confronto fra due prodotti contenuto in un messaggio di pubblicità comparativa non deve omettere , deliberatamente e consapevolmente, informazioni utili e veritiere all’uniformità del confronto. La pubblicità denigratoria è una forma di pubblicità che cerca di promuovere un prodotto o un servizio denigrando in modo diretto o indiretto la concorrenza.
E’ un tipo di pubblicità che cerca di convincere i consumatori che il prodotto o il servizio del concorrente sia inferiore o negativo rispetto a quello offerto dalla propria azienda.

Foto di Laura Chouette su Unsplash
La pubblicità denigratoria
La pubblicità denigratoria è spesso considerata anti-etica e può danneggiare non solo la reputazione del concorrente ma anche quella dell’azienda che utilizza questa prassi.
Inoltre, può anche portare a cause legali e sanzioni. Per questo motivo, la pubblicità che denigra la concorrenza può essere vietata se è diffamatoria, falsa o ingannevole.
Denigrare significa, del resto, creare discredito sui prodotti o sulla attività di un concorrente. E questa sfiducia si può palesare sia nei confronti della clientela sia nei confronti dei fornitori del concorrente.
Chiaro che se la notizia screditante viene data dal concorrente come risposta a una domanda che gli viene effettuata da un terzo (es. un cliente che chiede al concorrente com’è fatto il prodotto dell’altro) si ritiene che la diffusione del messaggio veritiero non sia idoneo a creare discredito.
Una fattispecie tipicamente denigratoria è la comparazione con il prodotto del concorrente: è tipica l’ipotesi di attività illecita relativa l caso in cui un concorrente imprenditore con una serie di messaggi pubblicitari rappresenti il prodotto del concorrente in modo denigratorio confrontandolo con il proprio prodotto.
Ai sensi dell’art. 2598, n. 2, Cod. Civ. costituisce denigrazione commerciale la diffusione da parte di un imprenditore di notizie relative a un proprio concorrente idonee a influire negativamente sul giudizio del pubblico.
Le notizie devono essere idonee a causare, anche solo potenzialmente, un danno concorrenziale che si traduce, nella sostanza, in maggiori difficoltà sul mercato (perdita di clientela o di fornitori, ricadute sull’organizzazione dell’impresa).
A mio avviso, che si tratti di indirizzare i consumatori verso acquisti più consapevoli o che si cerchi di “influenzare” l’acquisto dei prodotti di un determinato brand, la pubblicità che cerca di valorizzare un prodotto o un servizio di un’azienda senza denigrare la concorrenza è più efficace e rispettosa nei confronti dei consumatori.
E sicuramente ripaga di più a livello di connotazione del marchio.
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